Il salto in alto mi ha sempre incuriosito. Non entusiasmato, in realtà, gesto troppo breve e senza sofferenza, ma incuriosito indubbiamente. La concentrazione, la ricerca dell’attimo giusto con quelle ritualità nevrotiche che precedono una rincorsa storta che proietta verso l’alto il corpo che, a un certo punto, si divincola in uno spasmo sinuoso. Bello, curioso. Tutto nasce, credo, da una fotografia in bianco e nero di mio padre, vista da bambino, che lo ritrae mentre salta una rispettabilissima misura sembrerebbe, in stile “a forbice”, una della prime tecniche di salto. Mi piaceva l’immagine, quel corpo in volo, agile e nervoso come sono nervosi tutti i corpi magri di salute, ed ero orgoglioso del suo gesto atletico.

Di recente, stavo iniziando il riscaldamento prima di un allenamento e, per aiutare la noia di quella routine, ho deciso di ascoltare un podcast in cuffia. E’ lì che sono incappato nella “fisica dello sport”. Dopo una breve introduzione che, come di prassi, giustifica e legittima il contenuto, si entra nel vivo: il Fosbury flop. Sì, proprio quel modo di saltare da rincorsa storta, di schiena, contro logica che però chiunque oggi ha negli occhi tanto che i salti “di prima”, come quello di mio padre, sembrano antichi come le racchette da tennis di legno o le F1 senza alettoni. Perché si salta così? Perché, prima, non si faceva? Cosa succedeva prima che un ragazzo di Portland semisconosciuto e con le scarpe di colore diverso a Città del Messico, nel 1968, rivoluzionasse l’atletica saltando 2,24 in quel modo strano? Prima c’era il ventrale. Prima c’era Valerij Brumel’. Valerij è un giovane siberiano, alto ma non altissimo, magro ma non allampanato anzi, atleta a tutto tondo che a 17 anni supera la barriera dei due metri. La sua progressione è inarrestabile. Nel 1961, a Mosca, stabilisce il suo primo record del mondo saltando 2,23 straddle, ventrale, appunto.

Nel 1963 salta 2,28 e l’anno successivo vincerà le olimpiadi con una gara non entusiasmante, ma dimostrando comunque di essere il più forte. La sua tecnica di salto è così perfetta ed elegante che è soprannominato Lord Brumel. La sua elevazione è imperiosa. Ma come in ogni storia russa che si rispetti il fato e la tragedia colpiscono, perché per i russi la felicità completa è ontologicamente impossibile. Una sera di primo autunno del 1965 la moto su cui Valerij viaggia come passeggero si schianta contro un albero. Tamara, l’amica alla guida, ne esce indenne. Per Valerij frattura esposta pluriframmentaria della gamba destra, quella dello stacco. Si parla di amputazione. Lo curano. La frattura si infetta. Inizia un calvario di operazioni che solo chi ha visto davvero un osso infetto dopo frattura esposta riesce a concepire. Finalmente il trattamento di Valerij è affidato ad un medico molto particolare, un altro fuoriclasse: Gavril Ilizarov. L’arto di Valerij è accorciato di tre centimetri e con quell’accorciamento non si salta, non si corre, si cammina zoppi. Ilizarov lo tratta con il suo metodo di osteogenesi in distrazione che permette di allungare, piegare e torcere un osso e che Gavril ha inventato, sperimentato e messo a punto in quel mare di sofferenza e miseria che sono i soldati reduci dalla guerra. Dopo due anni e un totale di 37 operazioni la gamba guarisce. L’arto è della lunghezza giusta e nel 1969 Valerij torna alle gare. Salterà 2,03, oltre non sarà possibile: una cosa è tornare a camminare normalmente, una cosa spiccare il volo. Intanto, oltretutto, la rivoluzione nel salto in alto è avvenuta: ha saltato Fosbury. Alla derisione e lo scetticismo che accompagnano come sempre accade le novità, subentrano l’ammirazione e la consapevolezza. Tutti, o quasi, ormai iniziano a saltare come Fosbury. Valerij, forse il più grande interprete dello straddle, non potrà mai più competere a quei livelli e si ritirerà definitivamente. Percorrerà una triste parabola di alcolismo e malattia che lo porterà a spengersi all’età di 60 anni.
Perché saltano tutti con il Fosbury flop? Il salto in alto, come ogni cosa nel mondo sublunare avrebbe detto Aristotele, è una questione fisica e solo due sono i parametri principali in gioco: la velocità del baricentro al momento dello stacco e la forza di gravità.
Il baricentro, in fisica, è un punto geometrico che corrisponde al valore medio di distribuzione della massa. E’ il punto in cui, volendo descrivere il moto del corpo, si può ritenere “concentrato” tutto il suo peso. E’ il punto di equilibrio del corpo. Nel corpo umano in stazione eretta si trova nell’addome, appena davanti alla seconda vertebra sacrale.

Quindi appare ovvio: per saltare basta portare il baricentro, il “centro” del peso corporeo, oltre l’asticella e il resto del corpo lo seguirà, magari aiutato da un bel po’ di tecnica. Questo, in effetti, è proprio ciò che accade nei salti straddle di Brumel’. Il corpo dell’atleta è sdraiato sopra l’asticella, il suo baricentro è nel tronco.

La posizione del baricentro, però, può cambiare: variando la distribuzione della massa nello spazio la posizione del baricentro varia; può, per esempio, spostarsi verso l’alto, oppure può,

e qui sta il trucco, “uscire” dal corpo, essergli esterno.

Il trucco del Fosbury flop è tutto qui: inarcando il corpo all’indietro il baricentro del saltatore si sposta e diviene esterno. In un salto ben eseguito il baricentro non seguirà il corpo dell’atleta al di sopra dell’asticella, ma lo accompagnerà passandole sotto. A parità di salto, ovvero di altezza del baricentro, il corpo del saltatore Fosbury flop ha un margine di molti centimetri e salterà asticelle che stanno più in alto rispetto al suo baricentro.
La leggenda vuole che Fosbury abbia studiato la sua nuova tecnica all’Università dell’Oregon e che l’abbia messa a punto sfruttando le sue conoscenze fisiche. Probabilmente c’è del vero in questa storia anche se, in realtà, qualcuno prima di lui aveva già sperimentato questo tipo di salto e tuttavia, come spesso accade, chi sia stato il primo è spesso solo questione romantica, malinconica e di astiosa recriminazione, chi conta è colui che capisce e persevera.

Tutti, o quasi, saltano Fosbury: è la fisica che lo impone. Poi, però, come in ogni rivoluzione, succede qualcosa che insinua il dubbio. Poi, però, in una città industriale e anonima dell’Ucraina sovietica un ragazzino di 11 anni supera al primo salto 1,45. Il fratello maggiore lo convince a iscriversi alla squadra di atletica. Il bambino si chiama Vladimir Yashchenko, detto Volodja, ed ha caviglie che sono molle ma ha anche la scoliosi, non grave, ma c’è. L’allenatore che lo nota capisce subito che con quella schiena il Fosbury flop è impensabile. Lo stile, allora, non può essere che quello di Brumel’, ma la sua progressione è ancora più impressionante di quella del vecchio campione. Quando giunge alla maturità fisica è altro 1,93 e pesa 83Kg. Il 3 luglio del 1977 in una sfida USA-URSS che si tiene a Richmond, fumo negli occhi, propaganda condivisa per ingannare e edulcorare la guerra fredda, il pubblico nota un atleta che di “sovietico” non ha niente: capelli lunghi, atteggiamento tutt’altro che marziale, gira svagato per la pedana e poi spicca un volo da 2,33: record del mondo. Due settimane dopo Sports Illustrated scriverà: “Ciò che nessuno mette in discussione è che il futuro del giovane Yashchenko sarà luminoso”. E così sembra proprio. Nel 1978, nel vecchio Palasport di Milano, quello ignominiosamente crollato per una nevicata, supera 2,35 (se state cercando di visualizzare quanto sia, le porte interne di casa sono solitamente 2,10). E’ un trionfo. Volodja è famoso, bello, conquista il mondo. Non solo non sembra sovietico, neanche si comporta da tale: beve, fuma, è insofferente alla disciplina, si ribella ai dirigenti sportivi. Però si allena, moltissimo, e il suo ginocchio sinistro inizia a soffrire. Nel 1979, Volodja viene mandato a partecipare ad una competizione inutile a Kaunas, in Lituania. Per gli altri non c’è gara, ma atterrando dopo un volo da 2,24 il suo ginocchio cede, rottura del legamento crociato anteriore. Di corsa a Mosca, due interventi, mesi di riabilitazione, ma il ginocchio non funziona. Altro intervento a Vienna, niente. Addio olimpiadi di Mosca. Ancora riabilitazione e, intanto, vodka. All’epoca l’intervento di Jones con il trapianto di osso-tendine-osso da rotula-tendine rotuleo del paziente è già conosciuto e praticato ma solo dopo un decennio e con l’avvento dell’artroscopia diverrà universalmente diffuso, dopo un profluvio sproporzionato di pubblicazioni, congressi, cattedre universitarie, società scientifiche che per quasi venti anni travolse l’ortopedia. Volodja si rivede in pedana nel 1983, gara militare dopo essere stato richiamato per il servizio di leva. Capelli rasati, rincorsa pesante, caviglie rigide, atteggiamento ancora più svagato e svogliato, salto da 2,15. Sarà la sua ultima volta. Inizierà un lento e implacabile oblio fatto di alcol, depressione, perdita dei privilegi, povertà, abbandono. Sopravviverà con l’equivalente di 100 Euro al mese fino a morire di cancro al fegato il 30 novembre 1999 in un fatiscente ospedale di Zaporozhye, la sua città. Mikhail Mishin, ex saltatore ucraino, incaricato dell’orazione funebre, dirà: “Oggi, straziati dal dolore, ti diciamo addio per sempre. Ma non dimenticheremo mai il tuo breve volo che la morte ha interrotto”. La vita, come i salti, è una questione di baricentro.

L'histoire du centre de gravité qui passe en dessous de la barre en Fosbury est un mythe, qui a servi à la propagation de ce style absolument antinaturel. Ceux qui propagent ce mythe n'ont aucune notion de saut en hauteur, ni de Physique. Et d'ailleurs, si c'était vrai, cela serait encore plus vrai en ventral, car la colonne vertébrale est beaucoup plus flexible vers l'avant que vers l'arrière, comme le prouve une des illustrations de l'article. Sinon, portrait attachant de V. Yashchenko, merci !
Coniugare poesia e ortopedia è un gesto da campioni